2022: LA RESA DEI CONTI

Vorrei così tanto avere le forze per fare un recap organico e funzionale del 2022 in questo momento. Purtroppo il 2023 è partito molto male per la mia vita personale e questa cosa ha ingarbugliato un po’ le mie schedule, tanto da farmi finire a chiudere quest’articolo a un giorno dalla pubblicazione (mai successo prima). Sono fortunato ad avere tutti gli altri redattori al mio fianco, che si prendono l’onere di coprire tutto ciò che è impossibile portare in tavola in determinati frangenti di esistenza. Questa volta, mi perdonerete tutti, la qualità della mia scrittura sarà decisamente sottotono, ma intendo rifarmi con qualcosa che sicuramente apprezzerete: un porcaio di dischi. Sono stato a mani basse l’articolista che ha ascoltato più album dell’anno appena passato (vado per i MILLE) e molto spesso questa è stata una scelta un po’ scema. È arrivato il momento di raccogliere quanto seminato e regalarvi in chiusura dei nostri articoli di gennaio/febbraio una bella, piena carrellata di tutto ciò di cui non sono riuscito a raccontarvi nei mesi passati. Volete un consiglio? Ignorate tutto quello che ho scritto. Andate direttamente ai link, andate ad ascoltare tutta questa roba, capitela, prendetela, sviluppate la vostra opinione. Oggi sono solo felice di condividere con voi tutto ciò che nell’ennesimo annus horribilis mi ha concesso di accendere il cervello e allargare il cuore. Buona lettura.

PUP

Le chitarre, le chitarre, le chitarre

Quest’anno ho ritrovato un innamoramento adolescenziale verso lo strumento principe del rock e dei suoi dintorni. Le chitarre hanno fatto un figurone in un anno in cui l’elettronica e tutti quegli strumenti che divergono dal canone occidentale sono all’ordine del minuto; forse proprio per questa ampia saturazione del mercato musicale posso dire che tutti coloro che sono riusciti a far brillare nel buio le sei corde mi hanno colpito e affondato. Lo potete vedere bene in alcuni dei miei album preferiti del 2022: il disco dei Congotronics International, ma anche l’ultimo bellissimo lavoro dei Big Thief, il buon Ritournelles di Florent Ghys fino ad arrivare a quello che è il mio aoty, senza alcun rivale: The Ruby Cord.


Sono stato il primo della redazione a scoprire il cantautorato di Richard Dawson con Nothing Important, nel 2014. Peasant è piaciuto tanto a David, e negli anni successivi, sebbene 2020 sia stato uno dei miei dischi di quell’anno, il Dawson musicista l’ho un po’ perso di vista. Io ve lo devo dire: sono rimasto sconvolto da The Ruby Cord. A bocca aperta, dall’inizio alla fine, distrutto, devastato, intontito. Ho dovuto lasciare la recensione a David anche perché ho maturato immediatamente un gigantesco timore reverenziale nei confronti di quello che ai miei occhi è il magnum opus di quello che forse insieme a David Garland è il mio cantautore vivente prediletto. Vi posso solo dire che alcuni dei brividi che ho provato nel corso di The Hermit li ho provati, forse, solo nel corso della coda di Moonchild. E non saprei cosa dire di più su quello che in questo momento è il mio disco numero uno dell’anno appena passato. Una profonda gratitudine mista a stordimento mi impedisce di proseguire oltre.


Ho avuto modo di innamorarmi di una compilation che va a scavare nella discografia di una qualsiasi band emo attiva negli anni ’90. Caso ha voluto che tutti i connotati sonori della band in questione accarezzassero perfettamente le mie preferenze emotivo-timbrico-strutturali della macroarea del dopohardcore più sentimentoso. Non tutti i gruppi con i clean glassati del midwest hanno avuto l’idea di comporre ricalcando a carboncino il metodo di costruzione del brano e degli hook dei Fugazi: magari ai tempi non c’era un filone per i Current, ma riascoltarli oggi riempie il cuore di tenerezza e la nuca di spigoli, angoli e un generale senso di stordimento. Andate a scoprire Yesterday’s Tomorrow is Not Today.


Io non credo che i black midi riusciranno mai a fare un disco che sia di più di Hellfire. Della redazione sono l’unico che pensa che la brancaleone del Regno Unito sia arrivata e abbia superato il suo tipping point, con tutti quanti che attendono speranzosi ad un capolavoro che non arriverà mai. Per quanto mi riguarda ho deciso di accettare Hellfire come disco della vita di questo gruppo che tanto ci sta sul cazzo ma che tanto ha dato alle possibilità della musica popolare contemporanea, che ha insegnato che divergendo si può fare più successo che convergendo e che ha dato il via a una cascata di dischi che, per quanto possano starmi sul cazzo, sono sicuramente piuttosto fecondi. E quindi non posso che dire: grazie black midi. (Immaginate che però l’abbia detto guardando per terra, con il broncio, non credendoci veramente, sbuffando, con odio, astio, rancore, fastidio).


Per qualche sorta di stupida congiunzione astrale vi devo confessare che anche Ants From Up Here alla fine non è che mi ha fatto schifo. Trovo che abbia più personalità di For the First Time, che reputo un disco assolutamente mediocre, anche se penso che i Black Country, New Road non stiano reggendo la pressione – quantomeno dal punto di vista della creatività – e stiano facendo le cose un po’ a caso. La lettura collima con la recensione che abbiamo pubblicato qualche tempo fa. Però, dai, alla fine mi piacciono molte cose fatte a caso. Bisogna anche essere sinceri.


Una menzione gradita nel campo chitarre va anche a ECHT de La Colonie de Vacances, che con il suo rumor-prog brulicante si è fatto notare con coperture generose sulle testate italiane. I limiti strutturali del disco non pregiudicano l’ascolto dell’ensemble che, contando addirittura sei chitarristi di varia estrazione, rimane sicuramente interessante.


David Garland, nel silenzio generale, ha sfornato il suo primo LP dai tempi di Verdancy, una versione un po’ più sbiadita di quello che è stato uno dei grandissimi capolavori del decennio scorso. Questo motivo per cui non l’ho coperto, ma ci tengo a segnalarvi la gradevolezza di questo Tactility e dei suoi abbracci modulati su chitarre a 12 corde modificate, tutta roba che per un fan è un assolutamente non dovuto.


Nel campo delle melodie angolari e della whatthehellness made in US si è distinto anche Dig di Lilac Roadkill, che gioca qui e lì con riffing d’ispirazione raga e con canzonette di un indie rock d’altri tempi, all’uscio dei primissimi noughties – quelli weird coi brillocchi, non quelli degli Interpol e degli Strokes.


Se siete fan del punk blues alla Viagra Boys o dei lavori più recenti di Cave vale la pena buttare un occhio su The Real Work dei Party Dozen, che sin dalla copertina richiama quell’universo grottesco di jeans bagnati e alcolici pesanti usati come trattamento sostitutivo del metadone. E riesce a suonare musica per chitarre senza usare chitarre: andate a capire voi stessi in che modo. Tra l’altro Cave è in featuring nel singolo di uscita, il paragone potrebbe aver senso. L’ho imparato ad una convention per giornalisti musicali organizzata da Blow Up.


I PUP sono dalla loro formazione il mio gruppo pop punk preferito attivo in questo periodo storico. Purtroppo hanno dei limiti giganteschi – non aiutati dal fatto che il pop punk è il genere per tredicenni par excellence – e quindi non arrivo mai a coprirli. Ma devo segnalarvi The Unraveling of Puptheband, che fa il solito lavoro che i canadesi sanno fare da una decina d’anni. Se non avete mai provato questi zuccherini questo potrebbe essere il vostro battesimo.


Sono ancora stupito di essermi affezionato ad una one man band postgaze che ha pubblicato nel 2022. Sarà per l’attitudine a metà tra lo slowcore e l’anti-folk, oppure perché non riesco a staccarmi dalla merda che mi propina bandcamp, ma il fatto che nessuno abbia parlato del check di Sun Is Poison e del suo i thought i left you in eden è un bel peccato. Give it a chance.


Un disco meno particolare ma sicuramente più efficace è l’abreazione dream pop di Della Zyr, con una verve che ricorda un po’ i Fishmans in studio e un po’ i Ride. Non i miei interessi principali, ma l’onore alle armi va concesso e, agli appassionati, questo Vitamins and Apprehension va consigliato.


Ho voluto coprire a morte Portrait of a Lady, penso di averlo ascoltato una decina di volte con l’intenzione di regalarvi una recensione a riguardo, ma la vera verità è che a grattare sotto la superficie di Shilpa Ray non è che si trovi nulla. Eppure questa raccolta di innuendo femministi disco-punk-soul-wave regala dei momenti a dir poco memorabili (Manic Pixie Dream Cunt, Lawsuits and Suicide) che starebbero bene sullo stesso palco dei Blondie.


Così come sono stato affascinato dai Big Thief ho avuto anche modo di confrontarmi con il folk di Daniel Rossen e uscire particolarmente intrigato dalla sua componente sghemba e artsy. You Belong There è probabilmente uno dei prodotti più riusciti generati dall’universo Grizzly Bear, e spero che faccia più la parte del debutto in Long Play di una brillante carriera solista che quella di una deviazione di percorso felice, ma solitaria. 


RSS B0YS

Le commistioni postglobal, le scene che esistono

Il 2022, per me, è stato anche l’anno dell’esplorazione etnomusicologica monomaniacale, del rintracciare filamenti antico-elettronici in nazioni di questo pianeta nelle quali non ho mai avuto il privilegio di fare un solo passo. La scelta di esplorare la rubrica delle scene che esistono al di là del primo mondo e di fare il carico di informazioni e storia di paesi così distanti dal nostro canone, oltre che da ciò con cui entriamo a contatto nel corso della nostra vita studentesca e lavorativa, è stata una delle più eccitanti che potessi fare, e ho scoperto una quantità di oro che non è minimamente riassumibile nel grande ombrello che in epoca new age si targava vergognosamente come world music. Le possibilità di una medialità ipercollegata e post-globale ci hanno regalato tanti dei tesori più totalizzanti di questa annata: Yeyo, You Who Are Leaving to Nirvana, Kudu Bisa Kudu, Mmaso, The Swan. Gli album da classifica di cui abbiamo parlato sono solo la scintillante punta di un iceberg che vale sempre la pena scandagliare.


L’unica cosa che mi ha impedito di parlarvi entusiasticamente di Songs of Slavery and Emancipation è la sua sostanziale natura d’archivio e di rievocazione: il disco in sé è poco altro, non ha impattato né impatterà minimamente sugli sviluppi della musica contemporanea, ma contiene alcune performance con movenze struggenti e un grande rispetto per la tematica. Il climax è la bellissima Nat Turner, un holler che mi ha fatto venire una nostalgia gigantesca per quel periodo in cui ricercavo le origini del blues e scrivevo per uno degli articoli a cui sono più affezionato.


Dall’altro lato dello spettro c’è Leva Leva, una bestiale compilation di canti di pescatori portoghesi filtrati da beat elettronici in piena continuità con tutte quelle scene che abbiamo analizzato io e Roberto nel corso dell’anno. Non ho avuto il tempo di parlarvi del progetto di FLEE, ma questo blend di registrazioni lomaxiane, dark ambient e glitch è una esperienza devastante, che ho scelto di replicare più e più volte da quando mi è stato passato sottobanco il disco a Settembre. Non perdetevela.


Uno dei producer dietro a LEVA LEVA è Romain Baudoin, responsabile di un’altra delle mie menzioni d’onore, Arrehar, una classica uscita Pagans. La postura qui è particolarmente sperimentale, con un eccellente lavoro di raccolta di folk occitano e détournement del materiale originale in un continuo rituale di bordo drone e desert. L’ascolto lascia piuttosto atterriti, parlarne è difficile, andatevelo a recuperare.


In un campionato totalmente diverso ci sono le luci e le ombre di Cime e del suo The Independence of Central America Remains an Unfinished Experiment, un disco che sembrerebbe senza alcuna direzione e che probabilmente lo è. Se riuscite a sopportare marasma di freak folk bagnato-latino e a mettere nel cassetto tutti gli esperimenti falliti potreste arrivare a brandelli di nueva canciòn capaci di farvi venire forti dubbi su alcune delle vostre pietre angolari della critica musicale.


Di ascolto molto più facile e gradevole è la rumba-soul di Juanita Euka, una cantante anglo-congo-brasiliana che quest’anno ha sviluppato un disco (Mabanzo) che fotografa una highlife lussureggiante, trapuntata, bagnata nell’oro. Peraltro uno dei brani si chiama proprio Baño De Oro e questa è una tecnica che ho imparato ad una convention per giornalisti musicali organizzata da Rolling Stone.


Mentre raccontavo di Hakuna Kulala ho scoperto il collettivo dei Fulu Miziki, che si identifica nel filone della Tradi-Modern e che tecnicamente non è nato nell’universo Nyege Nyege. L’EP che hanno fatto uscire quest’anno è stato pubblicato con Moshi Moshi e a mio avviso non ha avuto il riscontro di pubblico che una bordata di elettronica così polverosa e aggressiva avrebbe meritato: non fate lo stesso errore della stampa internazionale.


Un’altra delle prove di Hakuna Kulala passata decisamente sottotraccia è la pubblicazione dei Selected Works di Tony Gallardo, un producer di Tijuana che fa cumbia/guarachero. Non so se il suo stile sia veramente quella via di mezzo tra Frank Zappa, Daniel Johnston, i Knife e gli OutKast che vendono da Kampala, ma quel che è certo è che i Works sono una buona prova di elettronica da vero outsider, stonato e balordo.


Non sorprende affatto quanto mi abbia interessato Afar Ways di Yanna Momina, una ossessionata jam session di musicisti tishoumaren sovrastati e completamente dominati dalle urla luttuose e malefiche della settantenne gibutiana, capace di improvvisazioni demoniache sulle basi concrete e riarse del desert blues. Il disco non è molto di più di questa descrizione e man mano che passano i minuti il fascino comincia a scemare, ma i soli ululati di Momina meritano ben più di un ascolto.


Tonkori in the Moonlight ha avuto una certa risonanza nella stampa internazionale, ma qui in Italia non se ne è parlato molto. OKI è un musicista Ainu che si pone l’obiettivo di unire le dolci melodie del tonkori con tanta musica dell’estremo oriente e dell’altro lato del pacifico: dub, reggae, folk, throat singing e un generale atteggiamento world che lo avvicina alla musica mande o nguni. Il risultato totale del disco rimane un po’ sulle sue, ma la cura messa nella costruzione del disco non dovrebbe andare trascurata.


Un disco che invece non ha alcuna cura per se stesso né per chi lo ascolta è MYTH0L0GY di uno degli RSS B0YS. Un mix cafonissimo di collage sonori, breakbeat, tradizioni separate da svariati meridiani cucite insieme alla bell’e meglio con un chiaro intervento distruttivo, punkish. Quasi uno dei miei dischi preferiti dell’anno, ma era troppo difficile parlarne. È ancora troppo difficile parlarne, quindi andate direttamente alla sua pagina bandcamp e mettetevelo in cuffia. Paraculata imparata ad una convention per giornalisti musicali organizzata da Rockit.


Una bomba che potete trovare anche nella playlist di Roberto è Sakidila di Pongo, un uragano di Kuduro di radici angolane, una robaccia tirata giù con l’accetta, da buttare giù se si ha il giusto pelo sullo stomaco.


Dopo esserci divertiti molto a coprire i Medicine Singers non possiamo non citare l’altra grande uscita Powwow dell’anno scorso, Niineta del loro lead performer Joe Rainey. Per grazia di dio su Niineta siamo lontani da quel baccanale math-pop/sperimentale/gat/deerhoof/tradimodern e tante altre parole miste, e Rainey riesce ad esprimere il canto powwow nei suoi oceani elettronici con molta più libertà e molti meno pensieri. Non è stato coperto solo per evitare di trattare lo stesso argomento due volte, se i Singers vi sono piaciuti non fatevi sfuggire questa mina.


Nei campi tecnomediterranei che abbiamo affrontato più volte quest’anno dobbiamo anche parlarvi degli Use Knife, un gruppo di ragazzi arabi e belgi stanziati a Ghent, che molestano il loro apparato di synth modulari con dei travolgenti e gretti ritmi provenienti dalle tradizioni della penisola arabica. Trovate questo e altro sul loro The Shedding of Skin.


Una versione molto più dolce dell’incontro tra il mondo musulmano e l’europa centro-nordica è il secondo disco del Wau Wau Collectif, un collettivo di senegalesi e svedesi che scrive musica con l’obiettivo di trovare consonanze tra l’avant-garde, il jazz nordico e le tradizioni spirituali di tutta quella componente psichedelica del senegal che proviene dalla spiritualità acida del sufismo. Potrebbe valere la pena indagare questo Mariage.


L’elettronica è spesso – abbiamo visto – il principale veicolo di innovazione musicale all’interno delle società poco secolarizzate. Se muta il contesto in un luogo conflittuale e problematico come la Palestina del 2022 ecco che arriva un anelito futurista che con lo strumento digitale si avvicina a molto del pop-hip hop sperimentale occidentale. Julmud, nel suo Tuqoos, è stato capace di contribuire in maniera assolutamente seria ad una calata di deconstructed club che oramai sembra potersi sviluppare solo tramite sentieri divergenti. La proposta caotica e aggressiva del producer palestinese batte uno di questi sentieri, voi provatela, poi mi dite.


Bad Breeding

L’hardcore, la city life, le mazzate

Nell’anno che ha partorito il primo grande disco dei Soul Glo e il terzo maturo scoppio dei Show Me the Body non potevo non dedicare una sezione alla rabbia, la furia, la frana di hardcore e botte che nel corso dell’anno ha provato a infrangersi sulle orecchie intorpidite degli ascoltatori orizzontali di tutto il mondo. Che sia roba germinata nell’imbuto del punk o musica più genericamente heavy, l’anno appena trascorso è stato un piccolo baluardo di schiaffi in faccia in un’epoca in cui la gentilezza è diventata molto più cool e onnipervasiva. 


Tra le varie uscite dell’hardcore regnunitense quest’anno mi sono fatto due belle chiacchiere con Human Capital dei Bad Breeding, che insiste sul versante più noise/slow del genere rimanendo centrato su di una narrativa anarcho punk e anticapitalista, con aperture furibonde che germogliano qui e lì lasciando la solita nostalgia degli anni ’80 e ’90 in una composta di produzione vagamente metallara e confusionaria. Poteva andare molto peggio.


Dello splendido Repair and Reward dei Lincoln aveva già parlato Emanuele nell’articolo uscito un paio di settimane fa, ma ci tengo a mettere anch’io le mie fiches su una delle compilation più sbalorditive dell’anno appena passato, un pacco di brani post-hc che sembra così tanto allineato ai giorni nostri (post-Cloud Nothings, per intenderci) da avermi fatto esclamare “FINALMENTE un lavoro con i coglioni” poco prima di scoprire che era una raccolta di pezzi degli anni ’90.


Non possiamo dire che Hygiene dei Drug Church sia passato esattamente sotto silenzio, ma noi non abbiamo ancora avuto occasione di spingervelo. Se si riesce a tollerare la produzione melodica e amichevole il disco picchia anche abbastanza duro, con qualche pezzo che riesce ad essere plain divertente (Million Miles of Fun, Super Saturated), non un lavoro da poco per il genere.


Abbiamo flirtato per tutto l’anno con Psyop of the Year e alla fine della fiera nessuno di noi ci ha scritto nulla. È un album che porta con sé un intero apparato circolatorio creativo, con tutto il pacchetto di barlumi e pisciate fuori che l’etichetta “Math” si porta con sé. L’unico peccato che poi ci ha davvero impedito di costruire una buona relazione con il debutto in long play degli EUNOIA: la turbolenta fantasia che si nasconde sotto ai brani ha dei limiti espressivi e tende a rimanere fine a se stessa. Si sono anche già sciolti, quindi non migliorerà.


Rubati direttamente dalle pagine di Impatto Sonoro e sgamati mentre scrivevo dei Soul Glo, gli Ho99o9 mi fanno ridere e sclerare. Non ho potuto negare la sufficienza a una take così abrasiva sul rap/metal/noise/salcazzo, con tutte le sue ingenuità Skin rimane un buffo fuoripista.


Nella settimana in cui i Dry Cleaning facevano uscire il loro mediocre disco con la saponetta rosa da Thrill Jockey veniva sparato un altro disco con la saponetta rosa, ben più interessante, pubblicato dai Persher. Man With the Magic Soap è un bestiale coacervo di industrial metal/digital hardcore/elettronica seborroica che si fonda su grugniti, urla e audio clippato in culo, come nella migliore tradizione della musica pesante che gira su bandcamp. Te ne privi?


Di questo disco polacco (Zas​ł​uguję na istnienie) non ricordo niente, ma mi è piaciuto. Tecnica che ho imparato ad una convention per giornalisti musicali organizzata da VICE.


A me il disco di quest’anno dei nouns ha preso bene proprio. Fa parte di diritto di tutta quella scuola di hardcore sperimentale all-over-the-place di cui parliamo sempre a volte con entusiasmo e altre con scetticismo: in redazione abbiamo pareri contrastanti, anche perché la musica hyper ci polarizza tanto, ma come fai a indispettirti quando senti robe come Maromi o Sentai Quarry? Dai, WHILE OF UNSOUND MIND è bello, non rompetemi il cazzo. Anche se meriterebbero un paio di schiaffi per il pezzo con Parannoul.


Questo non lo conosce nessuno ma spacca! Una compilation di hit psicopatiche cardiopatiche e antipatiche costruita dalla Skin Graft Records per Halloween 2022, una saint-honoré di rumore e droga che si porta via gli Oh Sees, Jim ‘O Rourke, i Flying Luttenbachers e David Yow come padrini poliamorosi e che rimane stimolante e tutto sommato brutale per tutta la durata del disco: dovete farci amicizia.


Xênia França

L’art pop, la voce, la passione

Se ci seguite con una certa attenzione sapete che sono un gigantesco sucker per il pop sbilenco ed elaborato, soprattutto quando il sound non discende dalle grandi star anni ’80 e  tutte le strutture del disco sono particolarmente ambiziose. Ovviamente questi connotati si applicano male alla merda da Grammy che viene passata con indulgenza nelle grandi riviste, ma ogni volta che il culto della melodia prende strade più sbarazzine io sono lì pronto a costruirci narrative. Quest’anno non è stato diverso dall’ultimo decennio in questo riguardo, ma non ho avuto modo di approfondire tutto il materiale che avrei voluto condividervi, quindi adesso vi racconto cosa ho amato, passate le varie Kee Avil, Emily Wells, Nwando Ebize e Marina Herlop.


Il livello di originalità qui non è altissimo, ma credo che la stampa italiana sia colpevole di aver ignorato la prova della nostrana Dalila Kayros, che ha lasciato un disco di nero su tela in perfetto campo dark ambient/ambient techno curato e coccolato dal suo canto struggente che si rifà un po’ a tutto quel filone di musiciste tormentate post-Lingua Ignota. In realtà ANIMAMI è un buon inizio, noi proviamo a dargli un assist, voi prendete nota.


Sempre dal nostro stivale ho avuto modo di apprezzare il debutto di Alessandro Baris, che pur uscendo in collaborazione con Lee Ranaldo direi che non è stato cacato da nessuno su tutto il globo terracqueo. Sintesi rasenta sicuramente la medietà in più di un suo momento, ma come prima prova questo glitch-rock meditabondo mi sembra tutto sommato un qualcosa di positivo.


Avrei voluto tanto in classifica la bella copertina di questa sensation gennarina, ma il mio palato pop non è ancora così abituato a certe morbidezze da piano bar. Ciononostante I Still Care dell’australiano Dekomodo mi è sembrata una buona incursione nell’art pop da camera, della scuola dei vari Owen Pallet o del Clementine meno ispirato. Nota di merito per tutte le stonature del canto, che imprimono un grande sentimento di disagio, gustoso e importante.


Ho avuto in canna una recensione di Métempsycose per più di due settimane, ma non sono riuscito mai a direzionarla. Il disco, d’altronde, è particolarmente semplice: una voce che fa il verso a Ribeiro e Nico in un colpo d’occhio dark chanson con l’acustica sulle cosce; ripetere per circa 30 minuti. Eppure la voce di Sophia Djebel Rose è così ammaliante che non sono riuscito a evitarne riascolti mulitpli – e questo lavoro è diventato uno dei simboli del mio 2022. Non è per tutti.


Oramai sono abbonato alle dive elettropazzopop con il primo piano in copertina, sufficienza gratis nei miei libri. Non fidatevi di me. Il successo di Em nome da estrela e della sua creatrice Xênia França è giustificato: il disco mette in fila una lunga serie di singoli killer macinando sulla componente brasiliana della performer e annegando il suo glitch da club in una vaporosa coltre di MPB/bossa postmoderna. Non fidatevi di me.


Non so se avrei dovuto parlare sul sito di questo carrozzone afro-funk futurista, ma se ho parlato dei maledetti King Garbage allora sì, probabilmente era il caso. Electricity vince sulle sue pulsioni highlife seguendo la direzione dell’afrobeat contemporaneo e tuffandosi a candela nelle ghiotte macchinazioni dance-punk che sono la cifra stilistica con cui viene venduta l’Africa nella contemporaneità angloamericana. È uno svantaggio? No, alla fine della fiera la Ibibio Sound Machine è tornata alla ribalta nella stampa internazionale e tutto sommato ha fatto una buona cosa.


This is good. Carta Aberta è un gran bel disco che è uscito a novembre per la nostra amica raso. e che vuole essere un esperimento di nueva canciòn galiciana. All’atto pratico il debutto di Antía Muíño è un songbook pieno e struggente, con una dolcezza e una spontaneità che per certi versi ricorda la bravissima Natalia Lafourcade e dei degni accompagnamenti jazzati. Ad ascoltare Canta, miña compañeira, Tango de Oural e la splendida versione de La Llorona la speranza è, come al solito, che si sia solo all’inizio.


Non siamo rimasti inermi davanti al pop accelerato e sghembo di Kaitlyn Aurelia Smith – chi segue le nostre playlist se ne sarà accorto – ma è d’uopo una menzione d’onore di questo coloratissimo lavoro elettronico-collagistico, che ci fa tornare un po’ allo scorso decennio di progressive electronics e vaporwave, stavolta in una versione particolarmente massimalista e consapevole. Let’s Turn It Into Sound.


Purtroppo sono rimasto stupito in positivo dall’ultimo lavoro di Stromae, un artista di cui non me ne è mai fregato letteralmente nulla. Multitude è un bel disco, stacce. Dico a me.


Un rapporto più ambivalente ce l’ho, invece, con il grosso Natural Brown Prom Queen, disco che è stato sparato nella troposfera delle zine musicali di tutto il pianeta. Tutto di questo lavoro di Sudan Archives grida di una certa gravitas, dalla copertina alla tracklist, dal moniker dell’artista fino al suo strumento d’elezione. Volevo che fosse uno dei miei dischi dell’anno, ma la vera verità è che il disco non è altro che un lavoretto sveglio e piacevole: manca qualcosa. E chi si aggrappa con le unghie e con i denti a questa uscita in realtà ha solo i Beyoncé Issues e vuole un sostituto alternativo e “intelligente” nel proprio pantheon di quella monnezza che è Renaissance (di cui non avevo ancora parlato male). Sorry not sorry.


Rico Nasty

L’hip hop e quel poco che c’è da raccontare

Condivido il turbamento per un periodo stagnante dell’hip hop, e al di là di Xaybu, delle varie uscite grime di Hakuna Kulala e del mio flirt con il boom bap venezuelano non c’è stato moltissimo di cui parlare. Ho lasciato tutto quanto in mano a David, che ha un punto di vista un po’ più comprensivo del mio. Ci sono state, però, svariate uscite che mi hanno lasciato a un passo dall’amore e che vale la pena esplorare, con un’importante eccezione e delusione di cui devo per forza farvi menzione. 


Non so se vi è capitato sottomano LOST IN TRANSLATION di Lee Hyun Jun, l’ho trovato a fine anno tra gli esoteric sperimentali di RateYourMusic e non ho avuto modo di parlarvene. È… difficile da collocare, mixa due approcci all’hip hop dalla differenza inconciliabile. Può capitare di inquadrare dei beat così industrial da macchiarsi di clipping. o Grips, ma la fibra principale di tutto l’album è questo rap melanconico e dolcissimo di R&B filato che a volte lascia così perplessi da stomacare. L’esperimento è iper peculiare e ha avuto un discreto successo in Corea del Sud, vi consiglio di darci un’occhiata.


Come Emanuele sono rimasto vagamente colpito dal parto che Moor Mother/Haram travagliano sotto moniker 700 bliss. Trovo che questo Nothing to Declare abbia il pregio di proiettarmi in una di quelle atmosfere di rumore bianco via cavo che non si sentono dall’hip hop astratto di inizio noughties, con il plus di avere un certo approccio ignavo e ripetitivo che consente di prendere un momento di respiro e riflettere in un mondo di uscite post-Lamariane.


Sono rimasto invece sommamente deluso dall’ultimo Backxwash, che ha preso la via della pavidità sulla scrittura del pezzo e che trovo abbia soffocato tutta la rabbia e il fulgore di I Lie Here Buried With My Rings and My Dresses in una coltre di medietà quando va bene, di imbarazzo quando va peggio. È un peccato enorme, poiché sono un appassionato fan di Mutinta da qualche anno e aspettavo molto di più.


Improbabile ma vero, ciò che non ho trovato in Backxwash l’ho trovato in Las Ruinas di Rico Nasty, una cafonata senza nessun tipo di freno che ottiene dei risultati simili all’hardcore/industrial hip hop facendo un bouquet di trap-electro-metal-pop-cazzo che disgusta e impatta con la stessa violenza di una ciotola di buffalo chicken dip rovesciata nella bara di un caro parente. Il fatto che ogni tanto io abbia bisogno di queste scene rende il mixtape di Nasty una cattedrale nel deserto di furia trash.


WHT LBL di Armand Hammer è un disco ok, membro di una vasta schiera di dischi ok che notoriamente infestano i peggiori incubi di David, che preferirebbe probabilmente un remix nightcore di Tutta mia la città all’ennesimo disco hip hop ben fatto. Il fatto che sia un disco ok significa che ho veramente pochissimo da raccontarvi sull’ennesima impiattata di billy woods, ma immagino che sia buono a sapersi per chi ha pensato di schivarlo. Magari non schivatelo.


Strange Planet invece viene direttamente dalle pagine della best bandcamp shit, e potrebbe piacervi. Un concept di space exotica hip hop che raccoglie 23 collaborazioni in 23 brani diversi da melancolici space cowboys che rappano sulle basi di Tom Caruana. Forse il progetto non è a livello delle grandi e ambiziose release mainstream, ma c’è un che di nostalgico e amabile nell’ascolto di basi così lontane e così vicine. Give it a shot.


Devo ammettere che anche il disordinato e stanco lavorio partorito quest’anno da Open Mike Eagle su a tape called component system with the auto reverse mi ha fatto sospirare in più di un brano. Tipicamente non sono particolarmente preso bene con il jazz rap molle e blue che caratterizza tutto l’hip hop che non sia dei Sélébeyoné (tipo), ma quando i sample si muovono in direzioni più astratte e per certi versi outsider riesco perfettamente a bagnarmi i piedi nella mitologia di chi produce. In questo caso è andata bene.


Di Kae Tempest abbiamo già parlato a inizio anno ma voglio aggiungere al volo che il Regno Unito dovrebbe regalarci più rapper come Tempest e meno come Little Simz. Questa arteria di slam poetry sottoprodotta è così interessante e così poco esplorata che mi viene voglia di salire su di un palco e farla da me. Di Tempest mi piace quanto riesca a fare un lavoro quadrato, schiacciante, arido e sentito. The Line is a Curve non ha poi tanto da invidiare ai suoi lavori più blasonati, se non l’avete ancora ascoltato valutate un recuperone.


Dall’altro lato dello spettro della quirkiness c’è Finally, New dei They Hate Change i cui beat sono riuscito ad apprezzare senza troppo sforzo: la componente drum and bass è veramente preponderante – a volte ai limiti del breakcore – anche se i flow sono spenti e desaturati. Alla fine dell’ascolto si rimane un po’ con un pugno di mosche, per carità, ma alcuni pezzi dell’album sono tra i più interessanti dell’hip hop del 2022, in my book.


Bebawinigi

La scoperta

In coda a queste mie riflessioni sull’anno appena passato devo citarvi un calderone di dischi di cui è difficile parlare (spesso, infatti, non ne parlerò), ma che hanno rappresentato un po’ il mistico sapore della scoperta e del mio cammino dell’eroe come ascoltatore. Farebbero parte di questa variopinta lista i Canti di Tarozzi/Walker, il doppio di Florent Ghys e l’incredibile prova di Takada se non avessi già speso parole a riguardo in questa sede. Troverete jazz, metal, new wave, sound collage, musica che può avere il sole in testa o la testa nel culo a seconda della prospettiva. Per ricordarci che spesso fuori dai circuiti più battuti esiste un tripudio di small gods fetente e brulicante, che ogni anno ci lascia a bocca aperta.


Nel campionato degli album che ho provato a recensire senza nessun successo c’è quello che a tutti gli effetti è una delle mie scelte dell’anno anche se ho difficoltà a spiegarne la ragione. Polyhedren è un progetto collagistico di beneficenza del compositore Dren McDonald, uno strano patchwork di rock alternativo/elettronico che conta collab con – tra gli altri – i Residents, Iva Bittova, Nels Cline. Le acrobazie sonore di Psychic sono ondivaghe, nell’arco del post-punk/new wave, ma sono così sparse da essere difficili da descrivere – rimanendo comunque ben ancorate nelle forme del rock. Consiglio vivamente di dargli una chance. 


Gli Angles non sono mai stati la mia tazza di tè in campo jazz, nonostante tutta la nevroticità del sound e la formazione big band, che sono componenti che adoro. A Muted Reality, però, mi sembra il loro lavoro migliore ad oggi e credo che ci siano possibilità che rappresenti un colpo di reni che porterà gli Angles a una musica più ragionata e personale pur sulle strade già battute dai Mingus e Bley che fanno parte del loro pantheon. Quando uscirà il prossimo Angles sarò curioso di ascoltarlo.


Di Hivemind mi piace tutto: la copertina da B-movie, gli effetti e il sound, l’attitudine cyber-prog-metal, i continui hook e sample che compaiono qui e lì nel disco, i tecnicismi strutturali e melodici, le atmosfere da spazio profondo. Di Hivemind non mi piace che è solo il primo disco degli Ashbreather e il margine di miglioramento è altissimo: ma alla fine anche questa è un’altra delle cose che mi piace.


Ho provato in vari modi a coprire il progetto Bebawinigi, perché la vera verità è che la vena creativa di Virgina Quaranta è impressionante. Non sono riuscito a interfacciarmi con la sua musica perché il mio vocabolario ha difficoltà con progetti di rock sperimentale dal chiaro formato spaghetti, l’esclusiva è stata presa con una certa grazia da Ondarock e quindi posso rimandarvi ai loro pezzi sull’argomento. E a Stupor, sicuramente uno degli album più affascinanti usciti dallo stivale nel 2022.


Anche io come Emanuele sono stato stregatino dal progetto un po’ matto di Caio Lemos a nome Corpos Trasparentes e nello specifico trovo che quella sovrapposizione delle anime black e folk sia un vantaggio per la resa finale del disco, in linea di massima un lavoro un po’ più coerente e coeso di quanto fatto a nome Kaatayra, con un plus generico di espressività dannata che fa da filo rosso a tutti i trentasei minuti dell’album.


Come Bebawinigi e come Polyhedren il sommamente interessante Prepare Thyself to Deal with Treacle è stato nel backlog delle mie recensioni per molte settimane, e sempre per gli stessi motivi non sono riuscito a parlarvene come avrei voluto. L’ammucchiata di sonorità che vendono i Government è un porcaio di post-prog collagistico, frankenstein di sample dalle fonti più disparate, vera speedball per nerd di musica e appassionati di controcultura. Forse non è molto di più di questo, ma anche se fosse siamo davanti a un ascolto un po’ imprescindibile.


Ennesimo rappresentante della categoria delle scoperte che mi hanno lasciato senza parole. Old Time Music è un esperimento devastante di machine listening, musica folk-popolare, jazz, e rumorismi di qualsiasi genere. La fibra sonora risultante è una mista preoccupante di improvvisazione libera, glitch da intelligenza artificiale senza guinzaglio, momenti di pura brodosa dolcezza nascosti tra un singhiozzo e l’altro del codice. Quando emergono i baldacchini di banjo di a vine that grew… sembra di avere le mani nel primitivismo più puro, quando in realtà non c’è niente di più futurista del ragionamento di Weston Olencki. Must listen.


Questo disco sludge (Monuments to Impermanence) ha proprio una cover bellissima e quindi non poteva che finire nelle mie pick del 2022. Tecnica che ho imparato ad una convention per giornalisti musicali organizzata da Pitchfork.


Di questa bella valanga di violoncellismo sudafricano ne ha parlato Ondarock in fine annata con la penna di Karagiannis, e le nostre antenne si sono velocemente rizzate. Il limite più grande del lavoro di Abel Selaocoe è nella sua concreta incapacità di commistione delle due anime che lo formano (quella barocca/accademica e quella musicologica/sotho-tswana) e per questo il disco tende ad essere un po’ un ping pong tra le sonate di Platti e Bach e le versioni indocilite delle folksong che vengono esplorate. Ciononostante, in alcuni momenti (Qhawe, Seipone) questo Hae ke Kae sprigiona un’energia e una potenza nascosta che è impossibile sminuire. Speriamo, come sempre, che sia solo l’inizio.


In redazione siamo molto stupiti come la guru del pianoforte preparato Ève Risser, già nostro aoty nel 2015, sia riuscita a reinventarsi in ottica jazz/sperimentale insieme alla Red Desert Orchestra. Eurythmia è un album brioso e pieno: pieno di gente e pieno di idee. La big band si scolla nelle sue strutture nel corso del disco, lasciando il dovuto spazio al pianismo filiforme di Risser senza perdere in intensità né nelle sezioni di balafon né nelle brillanti visioni degli ottoni. Sicuramente uno dei dischi più importanti pasciuti in quest’epoca di blend sonoro e culturale. 


Registrazione d’archivio del gruppo toscano Tempo Reale, la Great Soundscape Session è stata capace di farmi innamorare di un pentolone di elettroacustica dalle tinte free/post che in altri contesti mi avrebbe fatto scendere le palle all’inferno. Il settetto condotto da Martusciello emerge con prepotenza da un’annata particolarmente affezionata – soprattutto nell’arco della musica popolare – di una certa musica elettrico-elettronica d’essai, e lascia un’impronta molto più timeless e ingombrante di quanto ci si aspetterebbe, tanto nelle sue frazioni psichedeliche quanto nei baluginii computazionali e in tutte quelle solitudini nate nell’alveo del free jazz. Avrei voluto tanto assistere dal vivo a questo dispiegamento di forze.  


Sono stato travolto dal fascinoso raccoltone del duo Arca/Oliver uscito per NTS Radio e pubblicato come Greatest Hits ’88-’16. È un pastrocchio accelerazionista che però riesce nel corso della sua durata ad atterrire prendendo forme più organiche, ginocchia a terra nell’uncanny valley. La scelta dei Wench di esplorare sonorità meno iperfuturistiche e più dark è a mio avviso il boccone del re di un’uscita che è stata coperta da mezzo mondo ma che rischiamo di dimenticarci dopodomani. Non facciamolo.


Poche uscite mi hanno perturbato come She’s so Cool, un revival di una specie di no-glam oscuro e infame suonato e cantato dalla musicista queer Brenna O, che vende incubi in una cascata di stonature e bigiotteria sonora da CBGB aggiornato al XXI secolo e al suo nuovo livello di polarizzazione. Nessuno fuori di noi cagherà mai il progetto Wet Kiss, cogliete l’occasione per unirvi al deprimente carrozzone.


Questo è tutto per l’anno che ha tracciato l’esordio della bellissima zine di cui mi onoro di fare parte. Per un primo colpo mi sembra che abbiamo fatto tutti quanti un grande lavoro, a prescindere dagli alti e bassi e dalle interazioni che su questo tema sono sempre molto parche. Se qualche mese fa mi chiedevo cosa è per me una recensione, e se ha ancora senso produrla, posso dire con tranquillità che anche solo avere una scusa in più per ascoltare, accarezzare, entusiasmarmi per tonnellate di musica che escono tutti i giorni è abbastanza. È stato un bell’anno, è una bella vita e non vedo l’ora di scoprire tutto ciò che farà schifo e tutto ciò che farà sangue di questo 2023 cominciato sotto ai ferri del male. 

Da domani siamo di nuovo operativi: in bocca al lupo a tutti noi.

Classifica

  1. Richard DawsonThe Ruby Cord
  2. Congotronics InternationalWhere’s the One?
  3. Soul Glo – Diaspora Problems
  4. Show Me the Body Trouble the Water
  5. Sélébéyone Xaybu: The Unseen
  6. Nwando Ebizie The Swan
  7. Silvia Tarozzi & Deborah Walker – Canti di guerra, di lavoro e d’amore
  8. Ecko Bazz Mmaso
  9. Big Thief Dragon New Warm Mountain I Believe in You
  10. BalunganKudu Bisa Kudu
  11. Florent Ghys Mosaïques/Ritournelles
  12. Midori TakadaYou Who Are Leaving to Nirvana
  13. Kee AvilCrease
  14. John Escreet Seismic Shift
  15. Lil SupaYeyo
  16. Danilo Pérez Featuring The Global Messengers Crisálida
  17. black midi Hellfire
  18. VV. AA. Songs of Slavery and Emancipation
  19. John Aylward/Klangforum WienCelestial Forms and Stories
  20. VV. AA. Leva Leva: Litany of the Portuguese Fishermen
  21. Imperial TriumphantSpirit of Ecstasy
  22. Emily WellsRegards to the End
  23. Polyhedren Psychic
  24. Ève Risser Red Desert Orchestra Eurythmia
  25. Lisa Ullén, Elsa Bergman & Anna Lund Land

Playlist

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Alessandro Corona M
Alessandro Corona M